Piccola biografia di periferie: dalla Liguria una nuova voce esplora le terre di confine urbane e umane

Piccola biografia di periferie
di Linda Miante
De Ferrari Editore Edizioni

👉Scopri il libro

Presente al Salone Internazionale del Libro di Torino, la raccolta firmata da Linda Miante e pubblicata da De Ferrari Editore è alla sua seconda ristampa.


🌊 Genova

È uscita per De Ferrari Editore "Piccola biografia di periferie", la prima pubblicazione della giornalista Linda Miante. Composto da ottantaquattro poesie, il ‘taccuino’ trascina il lettore in un viaggio perlopiù solitario attraverso le periferie, urbane, arcane e dell’anima. La raccolta è disponibile in libreria, online sul sito della casa editrice De Ferrari Editore e su Amazon. È stata per diverse settimane tra le prime dieci nuove uscite consigliate da Amazon nella sezione Poesia italiana, per poi approdare al Salone Internazionale del Libro di Torino 2025 (Sala Liguria) ed è ora alla sua seconda ristampa.


📚 Sinossi. La poesia come disvelamento di tute le periferie.

"Piccola biografia di periferie" si articola in tre sezioni o, come indicato dall’autrice, tre ‘momenti’ poetici (Sentieri liminali, Ordalia, Lux orta est iusto) che esplorano il contrasto tra luce e ombra, pluralità e singolarità, ma anche la più classica dicotomia sogno-realtà. Le poesie offrono una riflessione intensa sulla «maledetta città» (per citare “Il gabinetto del dottor Caligari”), descritta come un «rocchetto di inganno e sopravvivenza», dove le ambizioni si scontrano con una realtà cruda e soffocante. La raccolta diventa un atto di resistenza poetica - forse addirittura politica - comunque un tentativo di evasione oltre l'apparenza.

Il volume è arricchito dalla prefazione di Andrea Galgano, poeta, scrittore e critico letterario, che ha dedicato un’analisi profonda alla raccolta, estraendone punti salienti. L’autrice offre inoltre una sua personale guida alla lettura. In quarta di copertina, un contributo arriva anche dalla giornalista Sara Erriu, collaboratrice de "la Lettura" del Corriere della Sera: «Uno sguardo cupo e disilluso che mescola luoghi fisici e dell’anima per scoprire una realtà severa dove la luce, fioca, si intravede tra le crepe. Una voce che attinge ora al realismo ora alla sfera del romanticismo, delineando un quadro cristallino in cui dominano l’angoscia e lo smarrimento».

Sulla copertina del libro è incasellato un frammento dell'opera "Suono ottico" (2008) del musicista, compositore e artista Federico De Caroli, in arte ‘Deca’. Un'immagine che cattura l'atmosfera sospesa e a tratti brutale descritta nelle pagine. A completare l’esperienza visiva, tre quadri generati dall’intelligenza artificiale elaborano e sintetizzano i tre ‘momenti’ poetici, tentando un dialogo interpretativo tra parole e immagini.


✒️ L'autrice

Linda Miante nasce a Savona nel 1995. Durante e
dopo la laurea in Lettere Moderne all'Università di Genova, si dedica al giornalismo. È stata inviata di un'emittente televisiva ligure e attualmente si occupa di comunicazione istituzionale, musicale e culturale, oltre che di organizzazione di eventi. La raccolta "Piccola
biografia di periferie" è la sua prima pubblicazione.


🏛️ La casa editrice

Fondata nel 1985 da Gianfranco De Ferrari, e oggi guidata insieme al figlio Fabrizio, De Ferrari Editore vanta un catalogo di oltre 1.200 titoli e una distribuzione nazionale. Ogni anno pubblica circa cento novità, molte delle quali valorizzano il patrimonio culturale del territorio. Spaziando dall’architettura alla poesia, dalla storia alla gastronomia fino ai saggi universitari, il catalogo è ricco e variegato, testimonianza dell'impegno della casa editrice nel promuovere la letteratura e il patrimonio locale attraverso collaboratori di prestigio che curano le diverse collane.

Per ulteriori informazioni, contatti, per ricevere copie del libro o per la richiesta di
partecipazione a eventi, contattare il seguente indirizzo mail: mailcantiere@gmail.com o segreteria@deferrari.it.


📖 Estratti da "Piccola biografia di periferie" di Linda Miante

🧱 Prefazione – La voce liminale di Linda Miante (di Andrea Galgano)
A chi parla la voce di Linda Miante? Dove si situano la sua decisa profondità, la spezzatura terragna dei suoi cromatismi, gli inciampi dei suoi culmini che tremano e i suoi meridiani di ombre?
Sembrano solstizi che invocano una pienezza di tempo, un’andatura decisa che si ferma sulle soglie per contemplarle, farle proprie, raccogliere memorie, attimi, incontri, balzare nelle fughe e sospendersi in sinestesie di elementi: «Decora con mani di sabbia il crepuscolo la luna, / che dal mare ci allatta coi suoi fianchi prosperosi / e dona caviglie su cui ancheggiano i templi. / Cadono calcinacci calpestati da un superstite / di salsedine vestito. / Al gharb il molo dei naufraghi, / ancorati a lacrime straniere, / di bastimenti e diffidenti bestemmie. / Tornerà a casa, il sangue versato? / Ma da che parte del mare / se non in un riad marocchino, / in un circo, / in un ventre caldo?».
Nella sua voce sfrontata e personalissima, Linda Miante crea attraversamenti e umidori e nelle sue descritte zone impervie realizza una compattezza che smaterializza e feconda ogni oggettività, entrando nei contrasti: «Io sono i miei passi / e infestata da un pugno di sguardi / mi inseguo. / Guardo nelle finestre / sferzate da barbareschi venti / e penso a chi vorrei essere, / ma muri lanciano anatemi scritti con le dita. / La mia città è invisibile abisso / tavolozza di colori improbabili che rotolando, / riverberano nel solletichìo degli scafi. / Gioisco di imminente notte a coprirmi / un attimo prima di colpirmi».
Nella poesia non esistono i non-luoghi, come le periferie. Perché esse, pur essendo tali, diventano centro. Ogni angolo, anche sperduto o abbandonato, ogni concentrazione urbana, per citare le parole dell’autrice, diventa segno, simbolo, gesto, apertura del mondo.
E così le dispersioni e le ultimità splendenti e ombrose liguri diventano un punto di soglie di grazia, qualcosa di metamorfico, orizzonti che si rivelano e si richiudono come solchi ed estati solenni:«Metamorfosi di falene d’alzano con ali di cemento armato/ nei cortili dei padri. Palazzi feroci e sdentati / pensano a sbudellarmi come una triglia, / ciechi come statue, / penetranti come galassie».
O ancora: «Vicoli, / vicoli scultori di scheletri / ubriachi di saliva e puttane, / invecchiati di tabacco. / Gocciola il seme del veliero minaccioso / dei vagabondi ostaggio. // Svolto l’angolo /e si apre una piazza sudicia: / trafficanti di latta e passaporti al caffè/ lampeggiano sotto la luce al neon / lacerata dal fumo di iodio. / Osteria. / Altrove, / lumini di bicocche in processione / indicano strade invisibili di giorno, / ma fari nella foresta di meschite dorate».
Nel continuo rimestarsi di ombra e luce tenera di chiarore delle vite, dei luoghi, dei volti, propri o altrui, resta la salda opposizione, come un avviso, di amore e morte, che costituisce l’affronto, lo sfondo sfrondato del battito inesorabile dell’esistenza, dove le città assomigliano a un interstizio contrario e, allo stesso tempo, glorioso dell’anima, dove tutto diventa segno di agone e di tempo vissuto e arruffato.
Pertanto, Linda Miante compie una metaforizzazione di ardore e tenebra, tempo e necessità (nel suo significato greco), che non toglie presenze e dove la tensione dell’inconscio cognitivo è suprema.
La sua oscurità vellutata, le caligini, le ordalie, le notti di treni e di passaggi divengono il silenzio di elementi segreti che colgono luce di penombra sulle cose, dove finalmente, nella fame dello sguardo cogliere una insondabilità invincibile.

🌆 Introduzione dell'autrice – La città è della sventura sovrana (?)

Un incrocio di linee così malevolo da imprigionare i suoi abitanti in oscure geometrie di sopravvivenza. La città è nemica dei sogni sinceri. Viziosa burocrate di sé stessa, getta nel fuoco di mille industrie qualsiasi accenno di ribellione. Riassumerei così – se solo bastassero queste poche righe – quel rocchetto di sentimenti che è per me la città. Nella dimensione urbana trovo voci in agguato dietro ogni parete: dai mascheroni di luce nelle case, dai colonnati delle chiese, da lanterne di pirati incurvate dal vento, dai tombini che spirano nel sottosuolo. È questa la città segreta (come Il regno segreto di Robert Kirk) che mi si svela quando il giorno si fa profondo e sfuma verso sera. Un’orda di palazzi che sussurra inganni e bugie piomba sopra la mia testa e vuole strapparmi al sonno.
Sulle strade dell’imbrunire, orientarmi diventa un azzardo di specchi, e mentre me ne accorgo, i bucanieri dei mari notturni sono già sbarcati sulle rive del mio quartiere. Le ombre di facce1 apiccicaticce della città si fanno granitiche, severe, e guidano il mio sguardo tra due mondi – uno al di qua e uno al di là delle finestre – i cui battiti si sfiorano, seppur divisi dalle sottili lastre di vetro.
È dietro questo velo che il ‘momento’ di esordio, Sentieri liminali, cede il passo al secondo, Ordalia. Se prima la città valica il suo profilo convenzionale allungando le mani da quell’altra parte tanto cara a Kubin, per svelare una “sostanza dell’altrove”, allora dopo vengono descritte storie di carne amata, disprezzata e acre, di sudore pungente, fondali salmastri e pesanti tendaggi. In questa seconda parte (Ordalia) le strade si slanciano dentro le case, e viceversa, quasi in un atto voyeuristico di bellezza. Così, nello smog creato dal respiro dei corpi, la città del primo momento appare fin da subito un doppio di sé stessa, un po’ remissiva e un po’ feroce, ma sempre dissacrante. Snocciola invocazioni da dietro le ringhiere o appollaiata sui tetti, come un veliero prigioniero di una bottiglia, o nel groviglio dei corridoi del mistero, tentando di riprendere possesso di spazi dissimili lungo le vie del tempo. E poi, come in una vera ordalia, la città si anima di sonni febbrili e dissemina le strade delle sue piccole cose cattive. Anche dopo la più lunga delle notti, riaffiora la luce, e questa luce è un tuono, guida lo sguardo su quello che non vorrei vedere. La realtà svelata è più cruda dell’immaginazione: dal valzer tra ciò che è fuori e ciò che è dentro, mi ritrovo costretta in quel che è oltre (Lux orta est iusto), il terzo e ultimo momento. Un epilogo che, per angoscia e paradosso, potrebbe ricordare l’Epepe di Ferenc Karinthy. Svaniti i sogni, è facile accorgersi chela dimensione urbana non è che un’isola circondata da un tempo ingannevole, sfuggente e contraddittorio, come nell’inferno sognato da Manganelli3. Da questa condizione, tuttavia, non c’è risveglio né catarsi. Quantomeno, non me ne accorgo. Già oltrepassando il limine del primo momento, a guardar bene, la “maledetta”3 città non è più un punto di arrivo o di partenza, ma è piuttosto un’ammucchiata di cose scomposte che invade tutto il vivibile, il nostro centro della terra, là dove l’oscurità supera la luce non lasciando scampo al mare, costretto a crollare nel vuoto dell’universo.
Malgrado il peregrinare tra un limine e l’altro, non trovo il finis terrae: la città mi perseguita usando i suoi mille volti e in questo assurdo caleidoscopio di sguardi sento l’obbligo di darle tre nomi-talismano per tentare una via di fuga: Limine, Ordalia e Lux. Non possono che essere questi, in un movimento collettivo che emana vibrazioni di malattia, i perfetti tratti di una società-antagonista che si prende la scena irrompendo su queste pagine.

1 citazione da Crêuza de mä di Fabrizio De André (1984)
2 Giorgio Manganelli, Dall’inferno (1985)
3 la maledetta città di Holstenwall, nella Germania, in cui è ambientato il
celebre film Il gabinetto del dottor Caligari (1920)

📖 Estratti

1° momento
SENTIERI LIMINALI
Io creo mentre parlo
(forse la traduzione di Abracadabra,
dall’aramaico Avrah kaDabra)

IL SENSO DELLA PIETRA

Arancione di terra
ed ebbre colline
l’odore del gregge
veleggiava sul Maestrale
tra francobolli di casupole
dal giorno e dalla notte le più lontane.
Tarantolati culti dissipavano
dei naufraghi le lusinghe mediterranee.
Non s’era mai visto un giorno come quello.
Sentivo le preghiere delle travi
chiamare una nuova incudine,
un nuovo martello
con lacrime piegate
sul fuoco di nuovo acciaio.

ADDIO GIORNO PIÙ ANTICO

Tu nascondimi il sole,
oltre il vortice del meridiano:
sono i fianchi che bruciano la carne
e il pietrisco lungo i pendii.
Sono le porte lattiginose
che non placheranno questa arsura.
Sono un frate stilita
avvolto nelle onde magnetiche
e sono uno specchio che riflette
i raggi di un tempo immobile
e per sempre rinnovato.

IL VARIARE DELLE OMBRE DÀ FORMA AL TEMPO

Cantami Diva,
l’inaudita violenza dei tetti di lamiera
che annacquano sputi di nuvole
e degli indovini rubano gli inganni
nel tramonto arrugginito dal caldo.
Se Dio in persona spalancherà le fauci
duramente svelandosi, io lo pregherò
- piedistallo nel chiacchiericcio delle rane
e con un esercito di sterili grembi
sarò sua sciamana di cattive abitudini.

ARCHETIPO MEDITERRANEO

Decora con mani di sabbia il crepuscolo la luna,
che dal mare ci allatta coi suoi fianchi prosperosi
e dona caviglie su cui ancheggiano i templi.
Cadono calcinacci
calpestati da un superstite di salsedine vestito.
Al gharb il molo dei naufraghi,
ancorati a lacrime straniere,
di bastimenti e diffidenti bestemmie.
Tornerà a casa, il sangue versato?
Ma da che parte del mare
se non in un riad marocchino,
in un circo,
in un ventre caldo?

IN QUESTO SOLE

Il cielo è uno schiaffo nudo.
Brucia le vene il desiderio che taglia il corpo
e feconda le linee
e si arrampica sulle gole,
reale come le parole
nel segreto squarcio
dal sapore di goccia.
Corrono ancora i treni verso il profondo Nord
a picco sulle pareti,
sul mare profondo della falesia mediterranea.
Quando rintocca il petto le chiese sussultano,
goccia dopo goccia.
Il nostro tempo smuove giorni fermi,
esala sospiri,
precipita tra le gambe.
È sera,
ma tu sei luce cullata da onde di fumo.
Tintinnano le stelle polari al pascolo
e sento finalmente
il rollio della vita.

PASSEGGERI DEL TURNO DI NOTTE

Intorno all’amore è una campana in festa,
dentro, è frastuono di corpi e parole,
una consorteria di affanni.
Ma quale visione di morte
udire in una vita
del cuore pesante
quell’appello solenne.

CUORE PESANTE

Mi nascondo nella polvere che si sbriciola
al pestare di un bambino la pioggia,
o quando il vento mi rastrella le labbra
tra le trame di un tombino
che al passare degli zoccoli salta.
Dove finisce, l’amoroso fluire del vento?
Mi nascondo dalle brezze,
vorrei essere birra che disseta
ape operosa,
nettare di gigli.
Invece incontro profeti di mille possibilità.
Vogliono darmi un falso successo,
ma chiederò indietro la mia fantasia.

LA BALENA BIANCA

Da chissà quale pianeta
spalancavo le porte del sonno
bagnandomi di acqua e di sorgo.
Nella lunga notte sulla collina
un’unica luce a disvelare
dei miei soprammobili le curve.
I palazzi in conclave
osservavano divertiti il mio scrivere
un raggio inchiodato al muro,
ora rosso ora azzurro.
Inebriate dalle stelle
anime di porpora danzavano
nel ventre della notte
come spasmi del sole.
Allora mi sporgevo,
raccoglievo i sorrisi caduti,
appendevo finestre al filo di luna
che baciava i fianchi di una donna-farfalla.
Le rane, sole, si amavano nella melodia di un aulo
e il mio cuore sputava l’infanzia religiosa
su stoffe macchiate di cose spaventose.
Ora la mia terra è nuda,
miniera di giorno e frontiera di notte.
Io sono aria e pensiero
specchio nello specchio
equanime tra i riflessi del vero
sempre diversa
sempre la stessa.

SE TROVO IL SENSO DI QUALCOSA CHE RESTA

Ginepri scarmigliati rapiscono nel gelido fulgore
capannelli di moscerini abbacinati
dalle frange della notte che verrà.
Sul lungomare della ferrovia vecchia
scogliere di galassie gorgheggiano
onde bianche come pagine
e si mescolano a innominabili stranieri.
Perché, Daimon di città, trafiggi i nostri corpi nudi?
Sciocco, in voi sperimento le mie sensazioni:
sono limpido abbaglio di morte,
intreccio di anelli cosmici, cruda bellezza.
Guardami.
Questa tua vita è per l’ultima volta.

ACACIA DEL TÉNERÉ

La città è una parola sulla punta della lingua,
e sulle dita, il pallore di una colonna
nella visione che stronca
il mio obbligo di parola.

LA VITA BUIA

Alle volte dietro i cristalli
del poco amore non mi accorgo,
alle volte dei palazzi
perlopiù mi piacciono le ombre,
il loro esser onde.

NEL MIO SEGNO, ASCENDO

Nella città che tutto rapisce,
nella peluria che tinge la carne,
nella sabbia che accoglie,
nel caldo che tutto scoppia,
nell’antico furore di Gerico
ma soprattutto nel ricordo dei libri d’estate
d’avventura cosparsi.
Qui riposa il mio segno.

ELEVARSI

Di un’unica certezza mi rivesto,
che di questa vita porterò fortuna
e che nel mio buio ora resto.


📍 Piccola biografia di periferie – Linda Miante, De Ferrari Editore
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